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Visualizzazione post con etichetta Devoniano. Mostra tutti i post
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Janusiscus e la terra di mezzo degli gnathostomi (Parte 1)

Tornato dopo un lungo periodo d’assenza dovuto più che altro alle vacanze invernale, sono pronto a ripartire con le nostre paleostorie.
E il nuovo anno non poteva iniziare meglio che con un post su una pubblicazione riguardo ad un nuovo gnatostomo enigmatico (che, ammettiamolo, a noi piacciono tanto). In realtà l’esemplare pubblicato non è nuovo, ma come sempre più spesso accade, era rimasto sepolto nei cassetti senza revisione dopo essere stato descritto più di 20 anni fa. La paleontologia “da cassetto” è il futuro? In certi campi, sembrerebbe di si. Ma di questo parleremo dopo.
Giles, Friedman and Brazeau (2015) ridescrivono due resti cranici, Pi. 1394 (Olotipo) e Pi. 1833, entrambi costituti da neurocranio e rivestimento dermico associato, provenienti dalla Kureika Formation (Siberia) e risalenti a circa 415 milioni di anni fa (Devoniano inferiore). I resti erano stati precedentemente assegnati da Shultze (1992) all’actinopterigio Dialipina markae.
Un attento riesame dei due esemplari, analizzati anche grazie a una tomografia computerizzata, ha permesso di evidenziare nuovi caratteri della sua anatomia endocraniale, rivelando così un mosaico anatomico che permette non solo di rivedere la sua posizione filogenetica, ma anche di aggiungere nuovi dati riguardo l’evoluzione degli gnathostomi e la condizione ancestrale del loro ultimo antenato comune.

I due esemplari di Janusiscus, Pi. 1394 (Olotipo, sinistra), Pi. 1393 (destra), in visione dorsale. Modificata da Giles et al., 2015

Le Cronache di Placodermata, Episodio 4: i renanidi

Quello che mi piace della paleontologia e che ha sempre fatto da carburante per il mio interessante è la presenza nel record fossile di forme estremamente bizzarre e diverse rispetto a quelle che abitano il mondo a noi circostante. 
Ed è proprio questo rimanere a bocca aperta, con la fronte corrucciata, che tutt’ora costituisce un grande stimolo per lo studio del mondo del passato. 

Continuando il nostro viaggio nel mondo dei placodermi, oggi incontriamo uno dei gruppi più strani e misteriosi io abbia mai visto, che ancora oggi fa mettere le mani nei capelli a chi decide di avventurarsi nell’intricata filogenesi dei placodermi. 
Il gruppo in questione ha il simpatico nome di Rhenanida. 

Riproduzione artistica del renanide Gemuendina. Immagine da swriojas.blogspot.com

Le Cronache di Placodermata (CpD). Episodio 3: gli antiarchi

Da questo e per i prossimi 7 post ci addentreremo nella sistematica per conoscere un i vari gruppi di placodermi dal punto di vista anatomico e ecologico. Cercherò di non scendere troppo nei dettagli  pur cercando di essere specifico.  Questi post mi servono soprattutto per dare una visione d'insieme dei vari gruppi di placodermi e soprattutto fornirvi tavole e immagini che possano essere riutilizzate anche in seguito, quando molti dei taxa e dei sottogruppi di cui parlerò in questi post saranno affrontati con maggiore completezza.
Oggi cominciamo con gli antiarchi, uno tra i gruppi più famosi di placodermi ma di cui recentemente abbiamo scoperto come molte cose che pensavamo di sapere sulla loro ecologia e anatomia erano poco corrette.

Gli antiarchi erano placodermi di piccole dimensioni, di solito lungo circa una ventina di centimetri, con le forme più grandi che raramente raggiungono il metro. Sono caratterizzati da una struttura particolare della zona cefalica, che possiede un’apertura centrale in cui erano posizionati gli occhi, le narici e l'organo pineale. Inoltre, a differenza di molti altri placodermi, l’armatura cefalica è molto più piccola di quella toracica, a livello di proporzioni, a volte anche molto meno della metà.
La bocca non possiede le piastre superognathali, ma gli inferognathali si chiudono su una piastra suborbitale con un margine tagliente, a dare comunque un morso efficac.
Peculiare è anche la presenza di due piastre mediane nella zona toracica. Altra caratteristica distintiva riguarda le loro pinne pettorali, racchiuse da tessuto osseo in una sorta di corazza rigida a protezione delle pinne. In alcuni antiarchi queste erano avvolte da diverse piastre a formare una struttura unica e forse rigida, simile ad una sorta di remo, in altri invece la corazza delle pinne pettorali era segmentata, dando forse più mobilità.


Corazza dermica di Bothriolepis in visione dorsale con evidenziate le caratteristiche destintive degli antiarchi (Modificata da Denison 1978)

Gli antiarchi furono un gruppo diffusissimo, che si sviluppò probabilmente intorno al Siluriano medio-superiore, diventando molto abbondanti a partire dal Devoniano inferiore per poi estinguersi, come tutti i placodermi, alla fine del Devoniano superiore, nel momento della loro massima espansione.

L'estinzione di fine Devoniano Parte 3: colpa di più colpe?

Con questa mini serie stiamo anallizando l'estinzione di massa avvenuta verso la fine del Devoniano, circa 375 milioni di anni fa.
Oggi, dopo aver visto le vittime, e l'interessante firma ecologica di questa estinzione, vediamo cosa potrebbe aver causato questa importante crisi biologica.

Piccolo riassunto: abbiamo visto che tra le vittime vi furono un gran numero di forme marine, soprattutto invertebrati (collasso delle barriere coralline, scomparsa di oltre il 90% del fitoplancton, del 75% dei generi di brachiopodi, di buona parte dello zooplancton). Tra i vertebrati, gravemente colpiti furono i placodermi, che si estinsero completamente, e molti taxa di sarcopterygi e tetrapodomorphi scomparvero. Anche sulla terraferma, seppur in maniera minore, la vita non fu risparmiata dalla crisi, che colpì soprattutto le piante.
Oltre alle vittime, abbiamo visto due curiosi aspetti di questa estinzione: per prima cosa, non fu un episodio singolo ma una serie di mini eventi, che colpirono in maniera diversa gruppi diversi, in tempi diversi. Ciò significa che, nel nostro tentativo di individuare la causa di questa estinzione, dobbiamo tener conto la possibilità che vi siano state cause diverse per ogni mini impulso di estinzione, e quindi, in una visione generale, che questa estinzione abbiamo avuto più di una singola causa.
Inoltre, questa crisi biologica pare sia caratterizzata da una diverso grado di estinzione a seconda dell'ambiente: come abbiamo visto, gli animali che abitavano le basse latitudini e l'equatore, così come quelli che avevano un areale poco ampio e poco vario, furono maggiormente colpiti. In più, la crisi si fece maggiormente sentire negli ambienti di acqua bassa, vicino alle coste, piuttosto che in profondità, e maggiormente nel mare piuttosto che in acqua dolce.

Lo scorso post, vi avevo invitato a riflettere su questi punti, perchè, e ora lo vediamo, il fatto che vi siano state conseguenze diverse a seconda di latitudine e tipo di ambiente è strettamente legato alle possibili cause.

L'estinzione di fine Devoniano Parte 2: al posto sbagliato nel momento sbagliato

Nel primo post di questa mini serie sul grande evento di estinzione di massa avvenuto verso la fine del Devoniano, circa da 390 a 360 milioni di anni fa, avevo iniziato la disamina su questa estinzione partendo dalle vittime, presentando i vari gruppi di animali colpiti da questa crisi, i sopravvissuti, i gruppi che ne risentirono in maniera minoritaria.
Oggi invece vorrei fare alcune osservazioni su quello che ritengo l'aspetto più interessante di questo evento catastrofico, un aspetto che forse lo caratterizzata e lo distingue rispetto alle altre grandi estinzioni di massa avvenute nel corso dell'esistenza del nostro pianeta.

L'estinzione di fine Devoniano Parte 1: diving drama

Avevo intenzione di preparare un nuovo post sulla storia paleontologica d’Italia, un post dedicato al Carbonifero Italiano. Ma poi mi sono fermato un attimo a pensare.
Negli ultimi giorni, sia qui sul blog che con alcuni miei colleghi, mi è capitato di trovarmi a parlare delle estinzioni di massa, delle loro cause e delle vittime.
Nell’ultimo post sul Devoniano, grazie ancora una volta ad un commento di Robo, abbiamo menzionato l’evento di estinzione di massa avvenuto nel Devoniano Superiore, evento che, avevamo detto, ha spazzato via anche gruppi di vertebrati molto specializzati e differenziati, come i placodermi.
Ho notato che, e ne avevo pochi dubbi, questa importante estinzione di massa non è molto nota al pubblico, forse ancora meno di quella di fine Ordoviciano (di cui ho parlato ampiamente qui, qui e qui).
Dunque ho deciso che, prima di parlare del Carbonifero in Italia, è opportuna fare una mini serie di posts sull’estinzione di fine Devoniano.
Sarà una serie breve e in cui vedremo molto brevemente e a grandi linee cosa è successo, i gruppi maggiormente colpiti, le cause e le conseguenze, sperando di riuscire alla fine ad avere una visione globale abbastanza chiara e completa e a collegarla con il successivo periodo Carbonifero.

C'era una volta in Italia: La Carnia e il Devoniano che verrà

Il Devoniano è famoso per essere stato uno dei periodi più floridi da quando la vita è apparsa sul nostro pianeta.
Se avete mai visto un disegno o un diorama rappresentate un ambiente marino devoniano, vi saranno sicuramente rimasti impressi gli enormi placodermi corazzati, o i bizzarri squali con le spine, oi primi paesaggi dominati dalle foreste.
Ho parlato in vari post di animali del Devoniano, che per quanto riguarda i vertebrati fu davvero un perido importante, in cui si verificò, per esempio, l'estinzione di gran parte degli "agnati",  la radiazione dei condritti e la comparsa dei tetrapodi.

Ma, come ho tentato di farvi vedere nei precedenti post, non c'è bisogno di fare chissà quale viaggio verso mete lontane per vedere strati e fossili di questi momenti remoti.
Anche in Italia, spero non abbiate mai avuto dubbio alcuno, esistono strati del Devoniano.

Splendido disegno di un paesaggio subacqueo devoniano. By Julius Csotonyi

I predatori della preistoria Ep.2 Chi ha ferito Larnovaspis?

Eccoci al secondo episodio della mini serie sulle interazioni (supportate da dati) tra preda/predatore nel passato.
In questo post affronteremo la nostra prima indagine, nel tentativo di risolvere una specie di "crimine preistorico".
Questo primo caso ci fa tornare indietro nel tempo, precisamente nel Devoniano inferiore, circa 415 milioni di anni fa, in Ucraina.
E’ a questo periodo che risale un esemplare di Larnovaspis kneri, un heterostraco, rinvenuto con strani segni sulla parte sinistra della piastra dorsale.

Larnovaspis kneri. A) Visione dorsale B) Visione ventrale C) Ingrandimento della traccia di lesione più grande Scala A-B= 1cm. Scala C= 5mm. Da Lebedev et al., 2009

Il destino degli agnati (Seconda parte): casa dolce casa

Nella prima parte di questa storia, abbiamo analizzato l'ipotesi che il declino dei pesci senza mascelle, avvenuto nel Devoniano, sia in qualche modo stato collegato alla competizione con i vertebrati con mascelle.
Con l'utilizzo di varie fonti di dati abbiamo rigettato questa ipotesi, arrivando ad affermare come non sia possibile in nessun modo testare la presenza di un effettivo rapporto di competitività tra questi gruppi.
Ci eravamo lasciati con un paio di domande: se, dunque, non è stata la competizione con i vertebrati con le mascelle (forti della loro nuova "invenzione") a sancire la fine dell'età dell'oro dei vertebrati senza mascelle, quali sono le cause che posso aver portato a tale sorte? E come questi eventi hanno selezionato la biodiversità vertebrata?
Nella seconda parte di questa storia, cercheremo di rispondere a queste domande.

Il destino degli agnati (Prima parte): la caduta del mito


Se guardiamo ai vertebrati attuali (Figura 1a), ci accorgiamo che oltre il 99% di essi possiede vere e proprie mascelle, mentre i vertebrati senza mascelle sono relegati al solo gruppo dei cyclostomi  (Nelson, 2006). Essi inoltre sono generalmente parassiti o saprofagi (ma non sempre) e occupano nicchie ecologiche piuttosto particolari. Tutto questo potrebbe portare ad una veloce conclusione: i vertebrati con mascelle funzionano meglio di quelli senza. 

Figura 1a
Ma è davvero così? Forse, ma sicuramente non lo è sempre stato.
Senza il record fossile dei primi vertebrati, la nostra visione dell’evoluzione di questo gruppo sarebbe ampiamente distorta. Ora guardate un grafico simile che illustra invece i diversi gruppi di vertebrati presenti nel Siluriano (Figura 1b). 
La situazione è diametralmente opposta, con i vertebrati con mascelle rappresentati da soli cinque gruppi (placodermi, acanthodii, sarcopterygii e actinopterygii) e gli agnati invece fiorenti in un gran numero di cladi.
Questo caso fornisce un buon esempio dell’importanza dei fossili.

(P.S. Nei cladogrammi qui presenti, che provengono da Purnell, 2001, cyclostomata è parafiletico, mentre oggi, vi sono buone prove che sia monofiletico).

Figura 1b
Tuttavia, questo non confuta la nostra ipotesi, anzi. 
Da questo cambiamento nelle faune a vertebrati, con il declino degli agnati e la radiazione degli gnathostomi, è derivato il mito (falso come vedremo) che questi ultimi abbiano sbaragliato la concorrenza competendo con gli agnati.
Siamo di fronte ad un mito che ha portato gli agnati ad essere considerati come emblema del vecchio, del primitivo, del poco funzionale.
In questo post cercherò di far capire come l’ipotesi che i pesci senza mascelle siano stati condotti ad un estinzione quasi completa dalla competizione con gli gnatostomi durante il Paleozoico inferiore sia in realtà un falso mito, da guardare con aria critica e, momentaneamente, da abbandonare.

Gli osteostraci e i falsi miti

Ci sono nomi nella scienza, così come nel linguaggio comune, la cui celebrità è inversamente proporzionale alla loro vera importanza, o, peggio, al loro essere fuorvianti e creatori di falsi miti.
Tra questi vi è senza dubbio il termine agnati.

Fondamentalmente agnati significa senza mascella, e fin qui nessun problema, visto che effettivamente troviamo vertebrati senza mascelle sia oggi (i cyclostomi) che nel passato (ne abbiamo visti parecchi esempi). 
Nella visione popolare però il termine agnato è sempre reminiscenza di un qualcosa di primitivo, di sperimentale, un tentativo (finito male) della natura. 
Insomma, gli agnati non sono proprio considerati come le più meritevoli e ben riuscite creature nel panorama dell’evoluzione dei vertebrati fossili.

Tutto questo però è un mito che deve cadere.

Nei post precedenti abbiamo visto come non esista un vero e proprio gruppo degli agnati. 
A parte il non avere le mascelle, i vari gruppi presentano tutti morfologie molto diverse tra loro, a anche volte estreme e aberranti
Questo perché in realtà Agnatha non costituisce un gruppo monofiletico, ma bensì i vari gruppi che per convenzione ricadono al suo interno rappresentano invece forme diverse di vertebrati basali, posti dopo la divergenza tra gnathostomi e cyclostomi. 
Dagli anaspidi agli heterostraci, dai telodonti ai galeaspidi, tutte queste forme sono più vicine ai pesci con le mascelle vere e proprie che non ai pesci senza mascelle attuali, in un percorso evolutivo in cui piano piano si assiste alla comparsa dei più importanti caratteri che poi formeranno il corpo dei veri gnathostomi, come narici pari, pinne pettorali, scheletro interno, etc.. 
Se vogliamo parlare correttamente dunque, dobbiamo riferirci a questi animali come stem gnathostomi.
Il gap morfologico che separa gli attuali cyclostomi dai vertebrati con mascelle è oggi parzialmente ridotto proprio grazie alla scoperta dei numerosi fossili di pesci senza mascelle paleozoici, che hanno aiutato i paleontologi a comprendere alcuni dei più importanti passaggi nell’acquisizione dello schema corporeo dei vertebrati con mascelle attuali. 


Questo è il penultimo post della serie sui pesci senza mascelle fossili. Spero di avervi presentato in maniera chiara il misterioso mondo di questi bizzarri animali, e di averveli fatte apprezzare un po’ di più.
Oggi andremo a conoscere Osteostraci, il gruppo di agnati che attualmente viene considerato dalla maggior parte dei paleontologi (Janvier, 1996; Donoghue et al., 200) come quello più vicino al punto di origine dei pesci con mascelle vere (dopo vi dirò il perché).

Tungsenia paradoxa: il più antico stem tetrapode attualmente noto

Notizia freschissima.
Questa settimana un nutrito numero di autori capitanati da Jing Lu descrivono i resti incompleti di un nuovo taxon di stem tetrapode, o, per dirla in modo più semplice (anche se un pò più grossolano), di un altra di quelle forme intermedie tra "pesci" e tetrapodi.
L'animale, lungo circa una ventina di centimetri, è stato battezzato Tungsenia paradoxa, nome che, come vedremo, non sfugge alla regola "nomina sunt consequentia rerum" che abbiamo visto poco tempo fa.
Uno dei dati più importanti relativi a questa scoperta è la sua datazione: i resti di questo animale, provenienti da depositi cinesi (Posongchong Formation, nordest della provincia dello Yunnan), risalgono a circa 409 milioni di anni fa (Devoniano inferiore) e sono attualmente i più vecchi resti di uno stem tetrapode.
Inoltre, fino a questa scoperta, era presente un gap di circa 16 milioni tra i resti del più antico stem tetrapode noto, Kenichthys, e quelli dei dipnoi più antichi, come Diabolepis. Tungsenia riempie in qualche modo il gap, inserendosi all'incirca nel periodo stimato di separazione tra dipnoi e tetrapodi.

Il simpatico sorriso di Tungsenia.

Per chi conosce un pò i dipnoi (io ne ho parlato qui), il nome paradoxa rievoca subito un altro animale, Lepidosiren paradoxa, appunto un dipnoo (attuale). E Tungsenia non è stato chiamato paradoxa solo per la sua bizarra anatomia e posizione filogenetica, ma anche per un chiaro rapporto con i dipnomorphi (i dipnoi attuali e il loro parenti).

Esso infatti mostra caratteristiche morfologiche intemedie tra tetrapodi (come ad esempio una lama dentale parasinfidale piatta e un foro per la vena pituitaria sul processo del basipterigoide) e dipnomorphi (ad esempio un parasfenoide ampio). Anche a livello morfologico, Tungsenia sembra riempire un pò il gap esistente tra primi stem tetrapodi e dipnomorphi.

Quando ho partecipato all'ultimo SVPCA, quest'anno ad Oxford, ho notato come vi fosse un grande interesse per l'applicazione delle tecniche mediche (come le tomografie o le lastre a raggi X) agli studi paleontologici. Ho citato un paio di esempi in post del passato e anche nello studio di Tungsenia vi è un'ottima dimostrazione di questa interazione.
Grazie appunto a tomografie a raggi X, Lu et a., 2012 hanno studiato l'anatomia interna del cranio di Tungsenia per trarre indicazione sull'anatomia del cervello dei primi tetrapodi. Essi hanno osservato come alcune delle modifiche del cervello dei tetrapodi, relative al loro passaggio ad un'ambiente terrestre, siano avvenute molto prima di quanto prima pensato, all'inizio della storia evolutiva del gruppo, quando questi animali, come Tungsenia, non "sapevano" ancora che un loro discendente avrebbero un giorno camminato sulla terraferma e scritto appassionatamente la loro storia.

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Bibliografia:
- Lu, J.; Zhu, M.; Long, J. A.; Zhao, W.; Senden, T. J.; Jia, L.; Qiao, T. (2012). "The earliest known stem-tetrapod from the Lower Devonian of China". Nature Communications 3: 1160

Pituriaspida e le droghe australiane

Gli antichi latini solevano dire “nomina sunt consequentia rerum” (Giustiniano, Istitutiones, libro II, 7, 3 ), “i nomi sono la conseguenza delle cose”, per intendere come i nomi degli oggetti, delle persone, degli animali siano in qualche modo collegati al loro essere, ai loro modi di fare, alle loro qualità.

In effetti, se ci pensate bene,  ciò è palese e ben visibile tutto intorno a noi: molti cognomi di persona derivano da antichi mestieri (ossia cosa facevano gli antichi membri della famiglia) o a luoghi geografici indici di provenienza, o a caratteristiche esterne.  Pensate ai vari Napolitano, Dalla Chiesa, Baresi, Longhi, Cacciatore, Lombardo, Rossi, etc
O pensate agli oggetti, il cui nome spesso esprima lo loro funzione o il loro stato (gelato, ghiacciolo, caldarroste, asciugamano, tritacarne, accendino, etc..). 

Lo stesso discorso può essere applicato anche alla sistematica, o meglio ancora al processo di nomina di una specie (ho parlato di quest’argomento qui). Molto spesso, quando uno scienziato deve decidere che nome dare ad una specie nuova, segue lo stesso principio che abbiamo visto per i cognomi o per i nomi degli oggetti. 
E’ così che troviamo nomi di taxa che derivano dal luogo in cui ne sono stati trovati i fossili (es. Sacabambaspis, dal villaggio di Sacabambilla, in Bolivia, o ancora Tanystropheus meridensis, dal paese di Meride, in provincia di Lecco, Italia, o Argentinosaurus, dallo stato dell’ Argentina, etc..) o con riferimenti al nome dello scopritore (es. Stoppania ornata, dal nome del geologo Antonio Stoppani, o come Saurolophus osborni, in onore del paleontologo americano Osborn), o  ancora ai loro caratteri morfologici (Didelphodon “dente da opossum”, Baryonyx “artiglio ricurvo”, Ctenognathichthys“pesce dai denti a pettine”, etc..).
Morale della favola, dimmi come ti chiami e ti dirò chi sei.
Prestate molta attenzione ai nomi, posso dirci tante cose prima ancora di vedere le sembianze di chi porta tale nome.

Collegandomi a questo, oggi parleremo di un gruppo di pesci senza mascelle molto ristretto e bizzarro, il cui nome porta con se una piccola ma divertente storia.


Galeaspida e l'isolamento geografico

Predete un gruppo di individui di una popolazione di una specie a caso e separatela geograficamente dalla popolazione originale per diverse generazione; alla fine otterrete un gruppo di individui abbastanza diverso dal gruppone di partenza tale da poterlo considerare come una cosa a se stante, sia geneticamente che morfologicamente.
A volte, il luogo in cui il vostro gruppetto vivrà separato dagli altri sarà così circoscritto e così particolare, che essi svilupperanno caratteristiche anche del tutto diverse da quelle di partenza, spesso peculiari e inattese.

Questo potrebbe essere a grandi linee il riassunto del concetto di speciazione allopatrica, sviluppato intorno agli anni '70 dal celebre evoluzionista Ernst Mayr, per cui uno dei maggiori meccanismi di speciazione è l'isolamento geografico (ovviamente, non è l'unico).
Nel mio blog ho più volte cercato di sottolineare l'importanza della geografia nella storia dell'evoluzione dei vertebrati, di come essa porti allo sviluppo di forme endemiche molto specializzate e bizzarre, di come si può seguire una sorta di storia biogeoevolutiva, di come gruppi filogeneticamente anche distinti ma abitanti ecosistemi simili tendino ad evolvere alcune caratteristiche in comune.
Gli organismi viventi, anche fossili, interagiscono e hanno interagito anche con altri parametri oltre la loro mera esistenza. Mangiano, bevono, si muovono, muoiono, vengo predati, hanno bisogni e adattamenti fisiologici, vengono in qualche modo plasmati da quello che gli sta intorno.
Sinceramente non mi piace chi studia i fossili come entità singole separate dal loro mondo, per quanto poco conosciuto.

Ho iniziato il post con questa breve premessa perchè oggi incontreremo un gruppo veramente straordinario di pesci senza mascelle, la cui evoluzione richiama in un certo modo il concetto di isolamento geografico.

Per chi studia l'evoluzione dei vertebrati, e in particolare la comparsa delle mascelle a partire da organismi "agnathi", i galeaspidi rappresentano un gruppo molto importante, giacchè posiedono alcune caratteristiche anatomiche (ad esempio la prima evidenza di separazione tra organi olfattori e canale  ipofiseale, separato nei veri gnathostomi ma non indipendente invece negli altri agnathi) derivate e altre invece primitive, in una condizione intermedia (che brutta parola!) tra quella degli animali con e senza mascelle (Gai et al. 2011).

Ritengo però questi dettagli particolarmente specifici e non nello stile di Paleostories, il cui scopo è sempre stato quello di rendere gloria a gruppi sconosciuti in maniera piaceva e rilassante, senza addentrarsi troppo in tecnicismi per pochi (per quello, è un buon inizio leggersi gli articoli in bibliografia). Dunque, parlerò soprattutto delle caratteristiche anatomiche e biogeografiche di questo gruppo.