Translate

Il mito della conquista della terraferma Parte 3: arti per....nuotare!

Nel 1932 il paleontologo Save – Soderbergh pubblicò uno studio preliminare su alcuni fossili del Devoniano che erano stato estratti durante una campagna di scavo avvenuta un anno prima in Groenlandia. Tra i vari fossili, erano stati trovati i resti di 14 individui di uno strano essere, che lo stesso Save – Soderbergh battezzò come Ichthyostega, letteralmente “placca da pesce”. 
Sulla base di quei 14 individui descrisse 4 diverse specie di Ichthyostega e un nuovo genere di tetrapodomorpho, Ichthyostegopsis.
Per ammissione dello stesso Save – Sodernbergh, che i fossili rinvenuti in quella spedizione testimoniavano che in quel periodo era avvenuto un passaggio cruciale della storia della vita sulla Terra. 
Tuttavia, lo sfortunato paleontologo non riuscì a terminare i suoi studi poiché morì 16 anni dopo.

L’eredità lasciata da Save – Soderbergh venne raccolta dal professor Erik Jarvik (colui che aveva già descritto in precedenza Eusthenopteron). Jarvik, studiando la collezione che era stata raccolta in numerosi anni di spedizioni in Groenlandia, scoprì una serie di fossili che il buon Save – Soderbergh non aveva studiato perché ritenuti troppo poco interessanti rispetto al “cruciale” Ichthyostega.
In particolare attirò la sua attenzione una pinna caudale che all’apparenza sembrava appartenere ad un innocente dipnoo devoniano.
Studiando il reperto in maniera approfondita, Jarvik si rese conto che questa pinna era collegata con un cinto pelvico munito di arti.
E, guarda caso, questo cinto pelvico e questi arti erano curiosamente simili a quelli di Ichthyostega!



Jarvik aveva appena scoperto che Ichthyostega, come non aveva intuito il suo predecessore, era munito di una coda del tutto simile a quella di un dipnoo, con ancora una pinna caudale formata da raggi! Jarvik si rese conto di avere sotto mano una creatura straordinaria, munita di tratti inconfondibilmente da tetrapodi (arti muniti di dita, cranio compatto e formato da poche ossa) e di alcune caratteristiche da “pesce” (pinna caudale formata da raggi).
Poco tempo dopo la sua pubblicazione, la prima pagina di ogni giornale era dedicata a questo strabiliante essere, con tutte le negative conseguente. Ogni buona scoperta paleontologica ha i suoi miti e così, anche al povero Ichthyostega venne attacco il marchio di “Anello Mancante” tra i pesci e i tetrapodi. E, ovviamente, per conciliare la sua morfologia particolare, venne inventato un bello scenario evolutivo, in cui Ichthyostega divenne lo stereotipo della creatura acquatica che, per salvarsi dalla siccità, “inventò” arti e dita in grado di fargli “conquistare la terra” e marciare verso altre zone ricche d’acqua.


Qualche anno più tardi, lo stesso Jarvik descrisse un’altra bellissima creatura proveniente sempre dal Devoniano della Groenlandia.
Il suo corpo assomigliava a quello di Ichthyostega, con un cranio robusto, appiattito e con caratteristiche da tetrapode, una colonna vertebrale molto robusta, arti anteriori e posteriori con dita, e coda con pinna caudale molto (molto!) sviluppata, con numerosi e lunghi raggi.
Jarvik chiamò la sua creatura Acanthostega, e fin da subito i paleontologi furono concordi nell’affermare che esso era un parente stretto, più basale, di Ichthyostega (e anche oggi è così). Siccome sembrava non si potesse fare altrimenti, ancora una volta scoppiò “l’anello mancante mania” e Acanthostega, spinto dall’ondata di successo che aveva già avuto suo cugino Ichthyostega, finì su tutte le pagine dei giornali come il primo tetrapode ad aver camminato sulla terra. Ovviamente, si dava per scontato che entrambi fossero animali terrestri. Il mito perde il pelo ma non il vizio.


Ma tutte le storie che si rispettino hanno anche degli eroi, e, of course, ce lo abbiamo anche noi! 
La nostra (esatto, è una lei) si chiama Jennifer Clark, dell’università di Cambridge.
Clark (2006), studiando a fondo i fossili di molti tetrapodomorphi devoniani, utilizzando anche la genetica dello sviluppo, l’analisi sedimentologica per ricostruire gli ambienti, e grandi conoscienze di anatomia comparata, scoprì che molte cose che si pensavano sulla “conquista della terraferma erano in realtà sbagliate. Molto sbagliate.
Analizzando i resti di Acanthostega, essa scoprì che i suoi arti erano molto flessibili, molto robusti, ma poco adatti per camminare. I suoi arti non potevano piegarsi in avanti ma solo all’indietro, ed erano anche poco adatti a sorreggere il corpo durante il moto. In pratica, più che essere gambe e braccia funzionavano come delle pagaie, forti pagaie che permettevano all’animale di darsi una decisa spinta e muoversi con rapidità in acqua.
Inoltre, Acanthostega possedeva delle branchie ben sviluppate e probabilmente funzionali e, cosa sorprendente, esso non era dotato di 5 dita, come tutti si aspettavano, ma di una mano con 8 dita e un piede con 7 dita, tutte funzionali!
E anche Ichthyostega, i cui arti anteriori non sono mai stati trovati, possedeva un piede con  7 dita.

Innanzi tutto, cadde uno dei concetti fondamentali del mito: la condizione base per l’arto dei tetrapodi non è il possesso di cinque dita. Nonostante la maggior parte dei tetrapodi ha cinque dita e le condizioni derivate presentano uguali o meno dita, le prime "mani" e "piedi" si svilupparono con più di cinque dita.
Acanthostega, come pubblicato da Clark, non poteva sostenere il suo corpo con i suoi arti, né possedeva particolari adattamenti che potessero indurlo a camminare sulla terraferma. Le sue dita erano rigide e funzionavano come delle pagaie.
Inoltre, anche Ichthyostega possedeva una morfologia molto poco funzionale al moto terrestre: la sua colonna vertebrale è piuttosto rigida e inadatta a movimenti laterali e ondulatori, come quelli compiuti dai primi tetrapodi quadrupedi (pensate a come si muove una lucertola) e le sue “gambe” non potevano muoversi in avanti ne lateralmente, ma erano proiettate all’indietro, pratiche per dare una spinta propulsiva più che per camminare.
Al massimo Ichthyostega avrebbe potuto trascinarsi fuori dall’acqua, per scappare da un predatore, per esempio, muovendosi un po’ come fanno le foche. Un moto goffo e fatto mal volentieri.
Analisi sedimentologiche e studi paleo ambientali hanno ricostruito l’ambiente di vita di Acanthostega e di Ichthyostega come quello presente nelle attuali lagune a mangrovie, un tipo di formazione vegetale formata da piante che vivono con le radici in acqua, radici legnose molto sviluppate e aggrovigliate. Un ambiente dove muoversi richiedeva una grande abilità natatoria e un’ottima capacità di manovra.
Siccome,come abbiamo visto, gli arti e le dita non si sono sviluppati per conquistare la terra ferma, essendosi sviluppati in organismi completamente acquatici, si può mettere in relazione l’evoluzione delle dita con questo tipo di ambiente?
Non sapremo mai esattamente come sono andate le cose, ma questo è uno scenario evolutivo plausibile. Pensate un attimo: avere degli arti con dita può essere un sostanziale vantaggio per animali che vivono in un ambiente acquatico pieno di ostacoli e di intricati rami. Una sorta di “paletta con dita” permette eventualmente di spostare rami, radici e altri ingombri; oppure, può essere utile per scattare, facilitando la predazione. Oppure, può essere che gli arti si siano evoluti perché questi animali avevano bisogno di riprodursi sulla terraferma (in modo da copulare senza essere disturbati o con il rischio di essere una facile preda durante l’impegno dell’atto?).  Tutte queste sono speculazioni, probabilmente non lo sapremo mai.
Tuttavia,  i dati in nostro possesso fin'ora sembrano quanto meno appoggiare queste ipotesi.
La conquista della terraferma è stato un effetto secondario dello sviluppo di dita e arti. Un perfetto caso di exaptation. Alcuni animali, in quanto già dotati di arti, evolutisi in altre situazioni, si sono trovati nella condizione di potersi muovere sulla terraferma, sfruttando una caratteristiche ereditata da un antenato acquatico.
Acanthostega, un predatore acquatico
Però, tutto questo porta a due riflessioni.
La prima, che spero di avervi dimostrato, è che gli arti non si sono evoluti per conquistare la terraferma, visto che i primi animali in cui troviamo (per ora) queste caratteristiche sono animali acquatici. Il mito deve cadere per forza.
La seconda riflessione è conseguenza della prima: il cercare sempre una funzione, una funzionalità, una sorta di disegno intelligente in quello che è il meraviglioso processo evolutivo, ci porta a creare falsi miti e a produrre ipotesi forzatamente speculative, che sembrano essere ragionevoli seguendo la nostra mentalità finalistica. Invece, dovremmo pensare al contrario. Pensare che ogni nuova morfologia è il frutto di cambiamenti del codice genetico casuali, spesso relazionati a cambiamenti secondari, a modifiche contingenti, e non decise o indirizzate verso un qualche scopo.
Una nuova morfologia nasce, a caso, e viene poi portata avanti perché in quel momento risulta vantaggiosa, non perché il portatore della modifica sia consapevole che essa è correlata al suo successo. Lo so, forse sto facendo un discorso filosofico e pericoloso.
Ma il mio è un invito a riflettere, a pensare che ciò che noi pensiamo di sapere, che noi ci ostiniamo a voler conoscere, non è per forza di cose così.
Uscire dal pensiero antropocentrico e/o finalistico è l’unico modo per capire l’evoluzione.

-------------------------------------------------------------------
Bibliografia: 

- J.A. Clack2006
The emergence of early tetrapods. Palaeogeography Palaeoclimatology Palaeoecology 232: 167-189.

5 commenti:

*Save* ha detto...

aspetta sei sicuro che l'evoluzione sia del tutto casuale...la teoria olistica dell'evoluzione dice che non è poi così tutto casuale...

MarcoCasti ha detto...

bè, dipende cosa intendi per casuale...per casuale io intendo che non c'è dietro alcun disegno, divino o non che sia, l'evoluzioen procede secondo un andamento non prevedibile, fatto di sottili equilibri tra ambiente ed esseri viventi...questo intendo io per casuale...

*Save* ha detto...

ma l'evoluzione segue una logica interna data dal DNA

*Save* ha detto...

sai
studiando paleontologia
ho letto che il DNA ha una sua linea evolutiva
non so come spiegare...
e come se per un determinato carattere
si devono evolvere contemporaneamente altri caratteri
ma non so
ci sei?

MarcoCasti ha detto...

Per quel che ne so io (non sono un genetista), ci sono alcuni geni che si attivano in sincrono, quindi quando un gene viene selezionato tale selezione agisce anche sull'altro. Questo significa che l'evoluzione agisce su due caratteri, legati insieme. Ma questo non implica di certo una finalità nell'evolzuione. Forse non hai capito il termine casualità...qui si intende che la pressione selettiva naturale non è regolamentata da nessun fattore, non c'è dietro un disegno o un percorso ben definito e prevedibile. No, l'evoluzione segue il caso, quello che può essere selezionato positivamente oggi potrebbe essere controselezionato domani..e nessuno lo può scoprire in anticipo. Capisci?