Tuttavia, oggi al mondo almeno la metà degli
animali sono a corpo molle, specialmente nel mondo degli invertebrati. E meno
della metà (molto meno della metà) di questi animali a corpo molle potrebbe
non avere la già fievole possibilità di fossilizzarsi.
Per quanto riguarda i fossili,
dunque, conosciamo veramente pochi animali a corpo molle, soprattutto in
proporzione a quelli con parti dure.
Quindi, capite quanto sia difficile ricostruire quali animali
a corpo molle abitavano gli ambienti del passato, e in particolare come sia veramente
arduo ricostruire la loro storia evolutiva.
E questo riguarda anche le prime
fasi della storia evolutiva dei vertebrati, una storia che inizialmente era
priva di tessuto mineralizzato. Inoltre, molti dei gruppi vicini ai primi
vertebrati, come cephalochordati e urochordati (ascidie e anfiossi), posseggono
solo tessuti molli, così come le principali apomorfie di vari gruppi di
vertebrati riguardano tessuti molli, caratteristiche embriologiche o
strutturali (ad esempio, ghiandole mammarie, sudoripare e peli nei
mammiferi).
La sottile differenza tra un vertebrato con parti dure ben conservato (Gogonasus, un tetrapodomorpho, a destra) e un vertebrato a corpo molle abbastanza ben conservato (Mesomyzon, una lampreda cretacica, sopra).
Perciò, i resti fossili di
vertebrati senza parti biomineralizzate, come quelli che abbiamo visto qui, sono estremamente importanti dal
punto di vista evolutivo.
Senza i loro fossili non avremmo
mai potuto ipotizzare alcuno scenario evolutivo riguardante la loro evoluzione,
la sequenza di acquisizione delle caratteristiche tipiche dei vertebrati, dell’acquisizione
delle mascelle o della divergenza dei cyclostomi, e il tempo in cui esse sono
avvenute.
Tuttavia, il significato
evolutivo di questi fossili dipende in maniera molto stretta dalla loro
posizione nelle analisi filogenetiche, la quale deriva dal riconoscimento e dall’interpretazione
delle caratteristiche anatomiche. E
spesso, riconoscere la corretta posizione filetica di un taxon (e quindi,
inserirlo correttamente in un contesto evolutivo), è strettamente correlata
alla corretta interpretazione delle sue caratteristiche anatomiche.
Questo,
però, potrebbe a volte risultare alquanto problematico…
Il processo di fossilizzazione,
nonostante preservi spesso in maniera eccezionale alcuni dettagli, non è
ultraconservativo, tale che molte caratteristiche anatomiche vengono
rapidamente perse post – mortem, durante il processo di decomposizione.
Ciò vuol dire appunto che alcune
caratteristiche di un taxon non si preservano e non arrivano fino a noi, tale
che molto frequente (= avviene quasi sempre) chi studia tale taxon non può
ricostruirne tutti i dettagli anatomici.
E questo, per animali le cui
caratteristiche significative sono generalmente associate a parti molli, non è
proprio un fatto trascurabile.
Quando un animale morto si
decompone, inoltre, la sua morfologia generale viene spesso alterata (ad
esempio, frequentemente il corpo si gonfia – e può accadere che esploda -, o le
pareti del corpo collassano, o vengono a deformarsi postura e posizione di
alcune appendici), creando ulteriori problemi di inquadramento delle
caratteristiche anatomiche, in particolare quando dobbiamo decidere se una
parte di resto fossilizzato è effettivamente quella o un'altra (ad esempio, se
quel tubo che vediamo è realmente l’intestino o no), o per riconoscere
strutture omologhe.
Determinare quali caratteristiche
di un taxon fossile sono assenti perché non preservate dalla decomposizione
oppure perché effettivamente non presenti diventa un fattore cruciale, anche se
molto difficile da determinare.
Studiare e comprendere la
decomposizione dei corpo degli animali è quindi estremamente importante per chi
studi i resti fossili e le loro caratteristiche. Esperimenti sulla decomposizione
di animali attuali (in cui anch’io recentemente mi sono dilettato, con
risultati altalenanti – del resto, li faccio a casa, e non è che i miei
genitori siano così contenti-), possono aiutarci a comprende il modo in cui le
caratteristiche anatomiche degli animali vanno in putrefazione e si
deteriorano, e in particolare a scoprire se c’è una gradualità, se c’è chi si
decompone prima e chi dopo, quando e a che velocità.
Varie analisi, tra cui Briggs & Kear 1994, Briggs et al 1995, Orr et al. 2008 e Sansom et
al. 2011, hanno confermato
come la perdita dei caratteri dovuta alla putrefazione non sia casuale, ma si
ripeta ogni volta con un ordine preciso. Così, per certi gruppi di animali (tra
cui anche i miei cari cyclostomi) si è potuto capire i) quali caratteri vengono
persi così rapidamente tale che è quasi impossibile (o altamente improbabile)
che essi possano conservarsi nei fossili, ii) quali caratteri siano abbastanza
resistenti da potersi conservare se il processo di seppellimento del’animale
(condizione sine qua non per la fossilizzazione) è molto rapido e iii) quali
caratteri invece sono talmente resistenti da essere facilmente presenti nei fossili
e quindi riconoscibili.
Ad esempio, Sansom et al. 2011,
effettuando un esperimento sulla decomposizione di vari individui di una un
genere di lampreda e un genere di missina (in particolare Lampreta e Myxine), hanno
evidenziato come in lamprede e missine il grado di putrefazione non sia
casuale, ma che molte delle caratteristiche diagnostiche di Petromyzontida e di
Myxinoidea vengano perse molto prima delle caratteristiche che permettono a
missine e lamprede di essere considerate chordati. Detto in termini tecnici, i
caratteri sinapomorfici (molto importanti per la filogenesi) sembrano essere
molto più predisposti a essere persi durante la decomposizione rispetto a
quelli plesiomorfici (e filogeneticamente meno informativi). Ad esempio nelle lamprede, la cartilagine molle si decompone molto prima di quella dura, così
come vi sono problemi nella conservazione del cranio, che si deforma
facilmente, delle capsule otiche e della bocca. Un trend simile è evidente
anche nelle missine.
A livello filogenetico, questo ha
dei risvolti molti problematici, basti pensare che su 14 caratteri
filogeneticamente importanti per poter inserire una missina all’interno del
gruppo delle missine (Myzinoidea), ben 7 iniziano a scomparire dopo 2 giorni
dalla morte (tra cui le ghiandole da cui fuoriesce la sostanza gelatinosa
tipica di questi animali), dopo 8 giorni cominciano ad essere quasi
irriconoscibili anche i tentacoli orali e altre 2 caratteristiche. Solo 3 caratteri sono ancora riconoscibili dopo circa 35 giorni dalla morte, e anche questi iniziano a perdersi circa dopo 35 – 90 giorni.
Le ultime cose che rimangono
sono la notocorda, le placche orali e la cartilagine linguale (caratteri che
non distinguono una missina da una non missina, anche se gli ultimi due ci
dicono che siamo di fronte ad un cyclostomo), che dopo circa 200 giorni sono
ancora visibili, anche se in putrefazione.
Destino analogo anche per le
lamprede, che dopo 15 giorni hanno già perso o stanno per perdere fino a 7
caratteristiche diagnostiche su 10.
Come si può immaginare, tutto ciò
non rende la vita facile a chi tenta di studiare i resti fossili di questi animali.
E simili modelli sono stati verificati con i medesimi esperimenti anche su
numerosi altri animali, tra cui l’anfiosso. Con poca gioia per chi studia l’origine
dei vertebrati.
Che implicazioni ha tutto questo
(il fatto che a mano a mano che procede la putrefazione, vengono persi prima i
caratteri sinapomorfici che quelli plesiomorfici) nella nostra interpretazione
del record fossile?
La conclusione principale è che
bisogna stare molto attenti quando si guarda un fossile, poiché ciò che
pensiamo di vedere in realtà potrebbe essere tutt’altra cosa.
Ad esempio, l’assenza
di una struttura potrebbe essere dovuta al fatto che essa non si è conservata e
non che non era presente in origine, oppure possiamo interpretare una struttura
anatomica quando invece potrebbe essere un'altra.
E anche in un’analisi
filogenetica, attenzione a come considerare i caratteri, perché potrebbero
essere particolarmente influenzati dalla decomposizione.
Forse, in questo caso, si può
dire che chi studia i dinosauri o i mammiferi forse è un po’ più fortunato e
facilitato.
Insomma, ciò che non c’è non vuol dire che non c’era e quello che è
presente deve dimostrare di esserlo.
Di sicuro, l’ampliamento delle conoscenze
sulla decomposizione delle parti molli, sulla loro tafonomia e sull’interpretazione
delle loro tracce fossili, sarà uno dei campi che potrebbe maggiormente influenzare
le nostre conoscenze sull’evoluzione della vita sulla Terra.
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Bibliografia:
-Briggs D.E.G. & Kear A.J. 1994
Decay of Branchiostoma: implications for soft - tissue preservation in conodonts and other primitive chordates. Lethaia 26, 275 - 287
Decay of Branchiostoma: implications for soft - tissue preservation in conodonts and other primitive chordates. Lethaia 26, 275 - 287
- Briggs D.E.G., Kear A.J., Baas M., Leeuw J.W & Rigby S. 1995
Decay and composition of the hemichordate Rhabdopleura: implication for the taphonomy of graptolithes. Lethaia 28, 15 - 23
Decay and composition of the hemichordate Rhabdopleura: implication for the taphonomy of graptolithes. Lethaia 28, 15 - 23
- Orr P.J, Briggs D.E.G. & Kearns S.L. 2008
Taphonomy of exceptionally preserved crustaceans from the Upper Carboniferous of Southeastern Ireland. Palaios 23, 298 - 312
Taphonomy of exceptionally preserved crustaceans from the Upper Carboniferous of Southeastern Ireland. Palaios 23, 298 - 312
- Sansom R.S., Gabbott S.E. & Purnell M.A. 2011
Decay of vertebrate characters in hagfish and lamprey (Cyclostomata) and the implication for the vertebrate fossil record. Proceeding of Royal Society 278, 1150 - 1157
Decay of vertebrate characters in hagfish and lamprey (Cyclostomata) and the implication for the vertebrate fossil record. Proceeding of Royal Society 278, 1150 - 1157
1 commento:
interessante!!
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